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IL MIO APPROCCIO

Un vecchio detto popolare afferma che tutte le strade portano a Roma, volendo dire che per arrivare a una meta sono tante le strade che possiamo percorrere. Anche in Psicoterapia è così. Sono tante le modalità attraverso cui raggiungere gli obiettivi del lavoro con la persona che si rivolge ad un professionista, perciò esistono diversi approcci (diverse scuole di formazione). Ogni Psicoterapeuta sceglie quello che, per esperienza personale e per altre ragioni, ritiene più vicino alla sua visione del mondo e della vita. La strada che io ho scelto di percorrere e quindi il mio approccio nel lavoro è l’approccio della Gestalt a orientamento fenomenologico – esistenziale. Conosciamolo un po’ meglio!

COSA SI FA?

Inizio col dire che il processo terapeutico nel mio approccio di Gestalt ha come presupposto che il terapeuta aiuta il cliente ad aiutarsi attraverso la relazione. All’interno di questa cornice il cliente vuole qualcosa per sé, per la sua vita: è il cliente che sceglie in che direzione andare, e questo per un motivo etico, e cioè perché la vita è sua. Il mio titolo di terapeuta mi da un ruolo ben preciso: quello di accompagnare il cliente nel suo mondo interno allo scopo di aiutarlo a trovare da solo le chiavi per aprire quelle porte che solitamente non apre (e che magari non sa neanche di avere perché non si è mai avventurato dentro di sé con fiducia!) al fine di rendere la sua vita una vita qualitativamente soddisfacente.

Ma che cos’è una vita qualitativamente soddisfacente? È una vita che ha come caratteristica una condizione chiara: sentire di volerci vivere dentro e di avere il potere di cambiarne alcuni aspetti quando qualcosa che inizialmente ci piaceva non ci dà più il nutrimento interno di cui abbiamo bisogno. È per questo che solo il protagonista di quella particolare vita può decidere cosa farne: perché solo lui sa dove prendere il nutrimento che gli serve e sempre lui sa come vuole nutrirsi, con quale frequenza, con quale intensità, con quale foga, con quale lentezza. Io come terapeuta sono lì a osservarlo e a verificare insieme a lui che non si racconti balle, cioè che non spacci per cibo nutriente qualcosa che ascoltando bene il suo racconto sembra non nutrirlo: ognuno di noi per carattere è portato a nutrirsi in un certo modo e a incaponirsi a volte su quanto questo o quel sapore sia necessario così com’è alla propria vita, lamentandosi però di una cattiva digestione. In questi momenti il mio lavoro di accompagnatore sta nell’aiutare la persona a vedere come fa a bloccarsi lì su quel sapore pur constatando lei stessa che è un sapore indigesto così come si presenta.

Quello che fa il terapeuta è immaginare gli aspetti che il cliente può trasformare nella sua vita una volta individuato il comportamento compensativo (nella metafora continuare a nutrirsi nello stesso modo anche se il sapore non ci piace) e la situazione compensata (nella metafora vedere come quel sapore blocca la digestione). Dopo aver individuato questo si costruisce il progetto terapeutico a partire dal contatto con che cosa sente il cliente in questo momento, che cosa pensa di quello che sente, che cosa vuole fare di queste emozioni e di questi pensieri: da quel momento gli scambi relazionali tra il terapeuta e il cliente andranno in quella direzione, la direzione che ha per oggetto che cosa il cliente vuole trasformare della sua vita, avendo preso contatto con quello che sente e che fa inconsapevolmente per contribuire a trovarsi nei guai in cui si lamenta di essere.Il contratto fa da cornice al processo relazionale e dà il mandato al terapeuta per lavorare con il cliente sui punti che emergono nella sua domanda: a partire dall’analisi della domanda il terapeuta condivide la visione che si è fatto del problema e della direzione del lavoro; il processo inizia quando terapeuta e cliente trovano un accordo, cioè quando entrambi condividono gli obiettivi del percorso che si prospetta. È per questo che, se e quando in corso d’opera gli obiettivi cambiano, terapeuta e cliente devono ri-formulare un nuovo contratto.

PERCHE' SI FA?

Mettere il cliente a confronto con la forma della propria personalità e renderlo consapevole del proprio funzionamento significa toglierlo dall’illusorietà che la forma sia stabile e duratura: questa illusorietà è visibile quando la persona prende tanto sul serio il modo in cui si mostra al mondo. Prestare attenzione alla consapevolezza significa allora rendersi conto di cosa sta accadendo proprio ora, di cosa è consapevole, di com’è il suo respiro, di cosa accade nel suo corpo, di quali pensieri o immagini passano per la sua mente. Riconoscere il proprio processo permette di non darlo per scontato, di guardare l’identificazione con la propria forma e scegliere se modificarla accettando le novità emerse dal lavoro terapeutico.

Responsabilità è potere: riconoscere la propria decisione, farla diventare consapevole significa renderci conto di quello che facciamo e di quello che saremmo in grado di fare. Come sottolinea Anna Ravenna “la qualità della vita migliora quando all’interno dei nostri limiti ci sentiamo padroni di costruire la nostra vita”.

COME SI FA?

Su questi punti del processo si lavora attraverso strumenti specifici quali: la sedia calda; il ciclo del contatto; il continuum di consapevolezza (figura/sfondo e qui e ora); il come anziché il perché; le difese anziché le resistenze; l’aggressività come parte dell’assimilazione; l’uso dell’immaginazione e della fantasia; l’uso della metafora anziché del simbolo; l’ermeneutica anziché l’interpretazione fissa; esprimere anziché agire; la dialettizzazione della compattezza del sintomo e le polarità; l’uso della prima persona singolare; la responsabilità e il libero arbitrio; il vuoto fertile.